Mentre entriamo in porto a Sifnos resto per un attimo delusa: l’isola da lontano sembra brulla e soprattutto non vedo cupole e tetti azzurri puntellare le fotografie che ho in mente di fare.
La delusione dura letteralmente 5 minuti, che è il tempo che impieghiamo per lasciarci alle spalle il porto, aprire il cancello di casa, lasciare le valige dentro e guardare il mare che si vede dal patio.
In meno di mezz’ora ho già il costume addosso e sto scendendo la piccola stradina stretta tra la nostra casa e un’altra. In due minuti esatti sono in una piccola caletta di sassi rotondi e lisci circondata dalle colline brulle e silenziose. Sulla riva di fronte una chiesetta, cupola blu, con le scale perfettamente bianche che scendono direttamente a mare.
Per due giorni e mezzo non carico il telefono: lo utilizzo per fare qualche foto in giro e per collegarmi al wifi di un bar in porto, una volta al giorno. 70% fisso di batteria per un giorno intero.
A Sifnos perdo la cognizione del tempo. Al non sapere in che giorno della settimana siamo, come in tutte le vacanze, si affianca la perdita completa del tempo, del tempo scandito dalle ore segnate dalle lancette.
Sono sospesa. Non guardo quasi mai l’orologio e percepisco le ore che passano durante il giorno guardando il sole che cambia traiettoria, di quanti gradi ruoto l’asciugamano quando sono stesa a terra, dall’assenza di ombre a mezzogiorno, da quelle lunghe quando mi asciugo i capelli sul patio verso la fine del tramonto.
La mattina mi sveglio presto, scendo dal letto e mi metto il costume e cammino veloce verso il pezzetto di mare vicino casa e inizio a nuotare in un’acqua brillante che sa ancora di notte passata.
La sera ritorno a casa e corro di nuovo verso il mare e nuoto lungo la scia arancione che vira al nero che lascia il sole alle 8 prima di affogare nell’orizzonte in un attimo.
La notte resto sul patio, seduta su una sdraio, a guardare le stelle che vengono giù, lente, precise, definite. “Ne aspetto un’altra e poi entro” e intanto il tempo passa e non so quantificarlo e non importa. E ne cade un’altra “Un’altra davvero e poi basta”. Ogni volta lo stesso desiderio.
Sifnos scorre veloce e lenta insieme e per la prima volta in assoluto in un posto del mondo il tempo smette di esistere come lo conosco. Scorre velocissimo come il vento sulla pelle che mi abbronza ogni giorno di più sul motorino, sulle curve di montagna dove certe volte il mare non si vede, figurati se si capisce che siamo su un’isola. Scorre lento lentissimo, quando non riusciamo a raggiungere, perché il vento ce lo impedisce, il santuario più alto con le curve sempre più ampie, e il santuario sempre più lontano. “Scendiamo ho paura”. E resto in silenzio aggrappata a tremare fin quando non rivedo il mare e sento di nuovo la voce uscirmi dalla bocca.
Attraversiamo Sifnos da nord a sud, da est ad ovest e troviamo punti di blu sempre differenti perfettamente combinati al bianco accecante dei muri intonacati delle chiese e dei santuari, del nero delle rocce rese lisce e scivolose dalle onde e dal vento da quando l’isola esiste.
Da Cheronissos con il ristorante letteralmente sul mare, a Fikiada, un’ora di cammino lungo un sentiero di montagna ad una spiaggia bianca con 10 persone e 3 capre. Da Kamares mentre seguiamo il flusso dei nuovi arrivati in porto dal patio di casa a Kastro con la chiesa a picco sul mare e schiaffeggiata dal vento. Da Artemonas con la festa in una chiesa dove balliamo, mentre un prete ubriaco versa vino e fa passare vassoi con carne e patate, a Chrisopigi mentre nuoto sotto la chiesa adagiata sul vento e sulle rocce nere e ferrose.
Ci fermiamo sempre dove si poggiano gli occhi mentre attraversiamo lo spazio con il motorino, quantifichiamo il tempo che trascorriamo in un posto in tuffi e scale da salire o scendere e mentre lo quantifichiamo lo congeliamo pure, in colori, freddo e caldo e sale sulla pelle, sapori sulla lingua, gelsomini nel naso, sabbia nei piedi.