Appunti su Firenze e sulla bellezza

Quanto bellezza può contenere una città? Ma soprattutto quanta bellezza può contenere un corpo solo? Me lo sono chiesto per due giorni interi in una Firenze che sembrava in primavera e sembrava farsi beffa di tutte le inquietudini che un corpo può portare. Me lo sono chiesto fortissimo in tre momenti precisi, quando mi sono arrampicata su un muro alto dell’Arno e il sole era accecante e caldo e brillava sull’acqua che sembrava immobile e sulle facciate dei palazzi e avevo le gambe penzoloni sul fiume e sul vuoto e dopo un po’ le ho dovute ritrarre perché ho sentito le vertigini non dell’altezza ma delle bellezza che non riuscivo a sopportare.
Me lo sono chiesta di nuovo dopo qualche ora mentre ho costretto le mie amiche ad aspettare il rosa del cielo, che poteva pure non esserci – il giorno prima non c’era stato – e che invece, ovviamente, non si è fatto aspettare. Il duomo, Palazzo Vecchio, la Biblioteca, ponte vecchio, l’Arno e tutti i palazzi sono diventati da color pietra a rosa in pochi minuti. Una foto come mille altre in quel momento e ho poggiato la testa sulle braccia poggiate sulla balconata di piazzale Michelangelo per farmi cullare da quel colore.
Me lo sono chiesta per l’ultima volta salendo il sentiero che porta a San Miniato al Monte mentre la campana rintoccava le 5 e si sentiva solo quel suono e i miei passi sul selciato, quando ho dovuto abituare la vista che era rimasta rosa, al buio della chiesa fredda, quando sono rimasta incantata a guardare un frate vecchio di mille anni che non riusciva a sedersi sul suo scranno nel presbiterio della cripta e la difficoltà di un gesto così semplice per anni e che adesso non riusciva a fare e per il quale ogni giorno proverà sempre più dolore, mi ha trafitto il cuore eppure l’ho trovata bella perché c’era qualcosa che aveva a che fare con la perseveranza e col desiderio. O almeno così mi è sembrato.
Poi fuori da San Miniato il cielo si è fatto di nuovo blu/grigio ed è tornato il freddo che non avevo ancora sentito ed è stato un sollievo.

Grecia – Sifnos

Mentre entriamo in porto a Sifnos resto per un attimo delusa: l’isola da lontano sembra brulla e soprattutto non vedo cupole e tetti azzurri puntellare le fotografie che ho in mente di fare.
La delusione dura letteralmente 5 minuti, che è il tempo che impieghiamo per lasciarci alle spalle il porto, aprire il cancello di casa, lasciare le valige dentro e guardare il mare che si vede dal patio.
In meno di mezz’ora ho già il costume addosso e sto scendendo la piccola stradina stretta tra la nostra casa e un’altra. In due minuti esatti sono in una piccola caletta di sassi rotondi e lisci circondata dalle colline brulle e silenziose. Sulla riva di fronte una chiesetta, cupola blu, con le scale perfettamente bianche che scendono direttamente a mare.
Per due giorni e mezzo non carico il telefono: lo utilizzo per fare qualche foto in giro e per collegarmi al wifi di un bar in porto, una volta al giorno. 70% fisso di batteria per un giorno intero.
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A Sifnos perdo la cognizione del tempo. Al non sapere in che giorno della settimana siamo, come in tutte le vacanze, si affianca la perdita completa del tempo, del tempo scandito dalle ore segnate dalle lancette.
Sono sospesa. Non guardo quasi mai l’orologio e percepisco le ore che passano durante il giorno guardando il sole che cambia traiettoria, di quanti gradi ruoto l’asciugamano quando sono stesa a terra, dall’assenza di ombre a mezzogiorno, da quelle lunghe quando mi asciugo i capelli sul patio verso la fine del tramonto.
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La mattina mi sveglio presto, scendo dal letto e mi metto il costume e cammino veloce verso il pezzetto di mare vicino casa e inizio a nuotare in un’acqua brillante che sa ancora di notte passata.
La sera ritorno a casa e corro di nuovo verso il mare e nuoto lungo la scia arancione che vira al nero che lascia il sole alle 8 prima di affogare nell’orizzonte in un attimo.
La notte resto sul patio, seduta su una sdraio, a guardare le stelle che vengono giù, lente, precise, definite. “Ne aspetto un’altra e poi entro” e intanto il tempo passa e non so quantificarlo e non importa. E ne cade un’altra “Un’altra davvero e poi basta”. Ogni volta lo stesso desiderio.
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Sifnos scorre veloce e lenta insieme e per la prima volta in assoluto in un posto del mondo il tempo smette di esistere come lo conosco. Scorre velocissimo come il vento sulla pelle che mi abbronza ogni giorno di più sul motorino, sulle curve di montagna dove certe volte il mare non si vede, figurati se si capisce che siamo su un’isola. Scorre lento lentissimo, quando non riusciamo a raggiungere, perché il vento ce lo impedisce, il santuario più alto con le curve sempre più ampie, e il santuario sempre più lontano. “Scendiamo ho paura”. E resto in silenzio aggrappata a tremare fin quando non rivedo il mare e sento di nuovo la voce uscirmi dalla bocca.

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Attraversiamo Sifnos da nord a sud, da est ad ovest e troviamo punti di blu sempre differenti perfettamente combinati al bianco accecante dei muri intonacati delle chiese e dei santuari, del nero delle rocce rese lisce e scivolose dalle onde e dal vento da quando l’isola esiste.
Da Cheronissos con il ristorante letteralmente sul mare, a Fikiada, un’ora di cammino lungo un sentiero di montagna ad una spiaggia bianca con 10 persone e 3 capre. Da Kamares mentre seguiamo il flusso dei nuovi arrivati in porto dal patio di casa a Kastro con la chiesa a picco sul mare e schiaffeggiata dal vento. Da Artemonas con la festa in una chiesa dove balliamo, mentre un prete ubriaco versa vino e fa passare vassoi con carne e patate, a Chrisopigi mentre nuoto sotto la chiesa adagiata sul vento e sulle rocce nere e ferrose.
Ci fermiamo sempre dove si poggiano gli occhi mentre attraversiamo lo spazio con il motorino, quantifichiamo il tempo che trascorriamo in un posto in tuffi e scale da salire o scendere e mentre lo quantifichiamo lo congeliamo pure, in colori, freddo e caldo e sale sulla pelle, sapori sulla lingua, gelsomini nel naso, sabbia nei piedi.

Grecia – Atene

Sotto la metro di Ominia ci sono due persone sui 50 anni che vendono biglietti della lotteria sistemati tutti in fila su un trespolo. Richiamano l’attenzione dei passanti cantilenando qualcosa in greco, si fanno eco, ma lo fanno in maniera stanca, arresa. Li osservo per dieci minuti e il suono delle loro voci mi resterà in testa per i successivi dieci giorni.
Atene è energia intensa ma anche stanca, come se fosse inesplosa. Tutti si muovono ma non riesco a capire bene per dove. È come guardare la danza di api che seguono una traiettoria impazzita, forse anche a causa nostra, soprattutto in centro, che trasciniamo gambe e ci inerpichiamo sulla collina dell’Acropoli.
Le metro sono affollate e i flussi si mischiano di continuo nelle stazioni di scambio. Alle facce sorridenti nostre, di molti, di chi si bacia, parla, ride, di affiancano gli occhi vitrei di chi succhia un bibitone che pochi minuti prima doveva essere ghiacciato, ormai terminato e caldo, gli occhi stanchi di chi guarda nel vuoto, di chi guarda davanti a sé senza guardare. E poi una nuova stazione, un altro cambio: più ci allontana dal centro, più le voci cantilenanti dei venditori di biglietti della lotteria si fanno forti: sembrano muezzin che richiamano alla preghiera. Il paradiso con le vergini, la salvezza eterna è grattare e trovare il numero vincente; lo è in tutto il mondo, ma qui, ora, lo sembra un po’ di più.
Seguiamo i flussi del centro come una processione il cui percosso è segnato. Da piazza Syntagma all’Acropoli passando per la strada pedonale piena di negozi globali che non guardo nemmeno per sbaglio. Due piccole chiese ortodosse lungo la strada sembrano delle oasi in mezzo al caos di Ermou e di Monastiraki.

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Alzando lo sguardo alla nostra sinistra si scorge il lato lungo del Partenone, lo seguiamo con gli occhi e lo inseguiamo con le gambe sotto ad un sole clemente per un po’. La confusione di ristoranti con i butta dentro, paccottiglia di souvenir, aria nebulizzata è incessante fin quando superate le scale di Plaka il suono si abbassa e il frinire delle cicale prende il sopravvento su tutto: siamo sotto la costa di collina dell’Acropoli e c’è la me ragazzina del liceo classico che ribolle di emozione e che esplode non appena ne varchiamo la soglia. Intorno a noi libri di letteratura greca e storia dell’arte, davanti a noi una distesa di case letteralmente a perdita d’occhio, su tutti e quattro i lati che lo sguardo può abbracciare, senza soluzione di continuità, senza nessun punto di riferimento possibile, attanagliate dalla foschia e dal calore che si sprigiona dalle strade.

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Dall’Acropoli fino a Larissa Station a piedi è una camminata di circa 40 minuti: dai flussi di turisti alla città vera, alla città ferma, alla città chiusa. Incontriamo una quantità spaventosa di negozi chiusi, di sguardi nel vuoto, di Carrefour deserti e che vendono in batteria solo pochi prodotti, frigo vuoti. Un camioncino che vende cipolle incede lentissimo lungo la strada, fa due volte il giro dell’isolato, lo incrociamo tutte e due le volte. Una ragazza stringe un laccio e si buca sull’avambraccio seduta davanti una saracinesca abbassata.
Alla ricerca del nostro imbarco per le isole e di una mostra di Ai Weiwei, passiamo dal Piereo a Leoforos Vasilissis Sofias una zona gestionale e residenziale di Atene. È un viaggio nel viaggio. Al Pireo caos, caldo, mendicanti, gente che corre e parte, gente che corre e resta, un’infinità di bar e tavole calde, nessuna invitante, negozi chiusi e botteghe scalcagnate, negozi aperti e vuoti. Un commesso di Lacoste ad ora di punta guarda fuori immobile dentro la sua aria condizionata dietro al bancone di vetro.

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A Leoforos Vasilissis Sofias ci accoglie involontariamente prima un piccolo giardino del museo di arte bizantina, un’oasi non solo metaforica nel caldo umido del primo pomeriggio e poi il museo delle Arti Cicladiche, un palazzetto liberty con dentro un giardino d’inverno livello instagram pro. Neanche un greco a parte i ragazzi che vigilano le sale, altri due italiani con due bimbi e il resto francesi.
Ci mischiamo ai ragazzi greci di sera di nuovo ai piedi dell’Acropoli provando a cercare stelle cadenti, sentiamo la loro musica dai cellulari, lo schiocco dei baci che si danno, i tappi delle birre che stappano. Non cade nemmeno una stella oppure ne cadono cento ma Atene, le sue case sparse ovunque emanano una luce troppo forte per vederle venire giù.

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Siamo a Psirri per altre due notti. È il quartiere vivo e creativo di Atene. E in effetti i locali, numerosissimi, sembrano essere più interessanti e veri, le persone sono più di Atene che turisti, i ritmi e i movimenti sono più da città vera che da paesaggio dentro una palla di neve. Eppure l’aria è ferma, i palazzi sono in stato di abbandono e chiusi, come chiusi sono tantissimi negozi. Di nuovo la sensazione di energia inesplosa o meglio di una bomba esplosa di cui resta soltanto la devastazione che ha provocato e l’involucro vuoto. Mangiamo bene, osserviamo, annusiamo tutte le spezie del mondo in Evripidu ma è come se qualcosa fosse stato strappato via di forza. E io anche sento di essere fuoriluogo.
Attraversiamo di nuovo a piedi la città, da Psirri per una quarantina di minuti fino al capolinea dei bus per andare a Capo Sounio, al tempio di Poseidone l’ultimo pezzo di terra prima del blu Egeo. Di nuovo negozi chiusi, di nuovo disagio, di nuovo api in volo lungo una traiettoria confusa. Proviamo ad addentrarci in un parco alla ricerca di un po’ di ombra, torniamo indietro – e di solito non lo facciamo mai – perché le facce che ne escono, qualche siringa a terra ci intimoriscono un po’. La strada per Sunio è un alternarsi allegro e sereno di persone al mare – in un mare limpido anche in città – a palazzi grandi e strutture olimpioniche che sembrano abbandonate. Più ci si allontana da Atene più il sole brilla sulla superficie dell’acqua, con i raggi che trovano sempre meno ostacoli. Le curve assecondano la costa, un po’ dormo, un po’ leggo, un po’ mi lascio cullare e cullo i pensieri.
File_008Quando la terra finisce, quando gli uomini partivano e arrivavano, in cerca di fortuna, in cerca di guerra, in cerca di minotauri da ammazzare, il Tempio di Poseidone a Sounio era l’ultima cosa che vedevano, la prima che scorgevano. Teseo non cambiò le sue vele da nere a bianche ed Egeo disperato si gettò a mare: la sua disperazione diede il nome a quelle acque blu cobalto, le stesse in cui mi immergo circondata da piccoli pesci colorati che mi solleticano i piedi. Resto a pelo d’acqua sospesa con le gambe e le braccia larghe a galleggiare e quando apro gli occhi, prima è tutto bianco accecante per via del sole e poi intravedo le colonne del tempio di Poseidone, le stesse da migliaia di anni, le stesse viste da Teseo vittorioso, le stesse viste per l’ultima volta da Egeo.

Un paio di cose su Barcellona

Barcelona es poderosa, Barcelona tiene poder.

File_000 (1)Qualcosa come dieci anni fa Fabio Volo faceva un programma su mtv, Italo Spagnolo, in cui raccontava la vita a Barcellona da un appartamento sulla Rambla. Nello stesso periodo chiunque conoscessi partiva per Barcellona, andava in vacanza a Barcellona, parlava di Barcellona. Barcellona era la risposta a qualsiasi domanda. Quando ho iniziato a viaggiare veramente, per qualche motivo non puntavo mai il dito su quella parte della mappa, più o meno come non l’ho mai puntato sulla Grecia e a 29 anni e dopo vari giri in giro per l’Europa sono andata a trovare un amico a Barcellona e per quattro giorni ho rivisto tutto quello che chi tornava mi raccontava. Le foto e le sensazioni.
File_002 (1)E ho camminato per strade che mi sembrava di conoscere e ho assecondato ritmi fatti di pranzi alle 4 del pomeriggio e cene alle 11 di sera ai quali mi sono abituata in un secondo e per la prima volta dopo vari giri in giro per l’Europa e pezzetti di cuore lasciati più o meno ovunque ho pensato che realisticamente Barcellona potrebbe essere un posto dove vivere, un pensiero realisticamente depurato dalla tipica e banale adrenalina che ti regalano i posti in cui si sta bene.
File_003 (1)Barcellona mi è sembrata facile e mi è sembrata democratica, eccezionalmente bella ma senza sforzarsi di esserlo, assolutamente imperfetta a differenza del nord che pure amo visceralmente ma non necessariamente incasinata e sciatta come per qualche stupido motivo ho sempre pensato fosse.
Me la sono sentita da subito scorrere dentro e mentre lei mi scorreva io la attraversavo guardando nella penombra di tutti i portoni e i locali del Born e del Raval o in una piazza piena di Sole, come il suo nome nel cuore di Gràcia.
File_001 (1)Ci siamo prese e ci siamo date e ci siamo mischiate. Ho mischiato i colori degli miei vestiti al bianco accecante del Macba, alla terrazza coloratissima di Park Guell, alle pareti di Casa Batlló e a quelle bianche della Pedrera, alla pietra viva e al rosone di Santa Maria del Mar e a tutti i colori del mondo nei mercati e nella Boqueria.
File_004 (1)Ho toccato le cose con le mani prima di mangiarle, il burro dei dolci, il sugo sul pane, il sale sul pimiento e poi i piedi nella sabbia, la sera tardi seduti in riva al mare dopo le cene di pesce, a guardare le case basse e i balconi abitati della Barceloneta.
Ho sorriso un sacco a Barcellona, non mi sono incupita nemmeno una volta.

(Francia e Paesi Baschi) Bilbao/Paesi Baschi/Asturie

Fa freddo a Bilbao e, chissà perché, non avevo minimamente preso in considerazione il fatto che potesse fare freddo in Spagna. C’è questo vento freddo che schiaffeggerà le gambe e i piedi sempre troppo nudi per i giorni a seguire ma che mi farà tornare a casa la sera sempre più abbronzata e senza fatica. Perché camminiamo un sacco, non ci fermiamo mai. Abbiamo da andare sull’oceano a sentire ancora più freddo e a farci le guance rosse, un po’ per il sole un po’ per il vino che accompagneranno tutte le tapas che mangeremo senza mai stancarci di provarne di nuove, di fermarci al bancone con altre persone senza orari di pranzo o cena. “Hai visto questo? Ci fermiamo?”.

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Per tornare a casa la sera possiamo anche costeggiare il Nerviòn sul quale si specchia il Guggenheim ed è la prima cosa che vedo di Bilbao: ci restiamo il tempo di un paio di sigarette, quasi mezzanotte, nessuno in giro. È fermo, quieto, silenzioso, fa paura. Saliamo sul ponte che lo costeggia, dove ci corrono le macchine accanto, fa ancora più paura eppure è ipnotico. Di giorno è bello, mi piace guardare le persone che lo fotografano, che fotografano Puppy e lui sullo sfondo, mi piace visitarlo e partecipare all’impazzimento collettivo dei musei di arte contemporanea ad agosto. Ma è quando ci passo accanto di sera che non riesco a smettere di guardarlo.
Da Bilbao, per tre giorni, non stiamo mai fermi.

Siamo a Portugalete con il cielo grigio che ha lo stesso colore dell’oceano fermo e della sabbia bagnata piena di minuscole conchiglie e gusci di crostacei. Il paese è puntellato di bandiere basche, in ogni bar c’è sempre qualcuno a bere e mangiare, sempre qualcuno pronto a chiacchierare, in un basco che non capiamo ma che non ci impedisce comunque di parlare con tutti, tra una tapas e l’altra.

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Siamo a Bermeo e Mundaka: è ferragosto e la gente è allegrissima e tutte le persone che non abbiamo ancora visto a Bilbao sono qui, nella piazza di Bermeo, nel porticciolo di Mundaka, a bere, a ridere, a ballare, a baciarsi, a giocare, a richiamare i bambini che si allontanano. E siamo sull’oceano aperto, le onde si rompono sui frangiflutti di Bermeo e sulla scogliera di Mundaka con una violenza spaventosa eppure contemporaneamente rilassante. La schiuma che si crea con lo scontro dell’acqua sulle rocce è densa e bianca e svanisce in pochi attimi in mulinelli che ricreano nuove onde, nuova schiuma, nuovi mulinelli. Spariscono le nuvole e il sole diventa caldo.
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(Quando sei davanti all’oceano e sai che davanti a te non c’è niente o almeno per molti chilometri non ci sarà niente, le cose prendono ad vere una prospettiva diversa. Perché tanto quello che resta è solo il suo rumore e il vento che si sforza di essere dolce ma che si posa sempre freddo sulla pelle abituata alla brezza del mediterraneo. E questo basta: posso fare tutti i giri che voglio, camminare lungo le strade delle città o fermarmi nei vicoli in salita a mangiare polipo, bere vino, guardare le persone, sempre e ovunque, provare ad entrare nelle loro storie, ma alla fine il rumore che fa il mare, che fa l’oceano quando sai che per molti, moltissimi chilometri, non ci sarà terra ferma, alla fine, questo, è ciò che mi fa stare meglio al mondo).

Siamo a San Sebastiàn a mangiare pesce e fare bagni di corsa per andare a recuperare le nostre borse che la marea sta per portarsi via, a passeggiare tra le persone uguali a tutte le persone che la domenica vanno al mare, a rassegnarci alla marea, che non ci sono santi, puoi spostarti quanto vuoi, coprirà tutta la spiaggia dove sei e non puoi fare altro che risalire sul lungomare, costume bagnato e sale sulla pelle e portarti un senso dolce di impotenza e di rispetto nei confronti dell’oceano, oltre alla sabbia bagnata sulle asciugamani che peseranno il doppio.
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Siamo ad Oviedo e poi siamo a Gijón, due giorni nelle Asturie, incrociando sconosciuti sulla via di Santiago e accanto alle chiese con le conchiglie dorate a terra a segnare il percorso  che si augurano “Buen camino”, scogliere a picco sul mare, surfisti, animali al pascolo.
Oviedo è cupa e piovigginosa, il freddo si attacca sulla pelle come l’odore disgustoso del sidro che bevono tutte le persone sedute nei bar e nei ristoranti. Le vie del centro sono semivuote, tutti sono concentrati nei locali a bere e mangiare, le luci gialle piene dei lampioni, puntate sulle chiese e sui palazzi, rendono l’atmosfera, ancora più cupa, di un ovattato inquietante. È affascinante come città eppure allo stesso tempo respingente. Però di notte, sulle nostre teste ci sono un sacco di stelle, anche se non ne cade nemmeno una.

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Gijón è blu e di sole ed è impressionante come basti scendere dalla collina di Oviedo per ritrovarsi di nuovo travolti da cielo, vento e oceano. Nuoto tantissimo a Gijón e mi piace sentire quanto gelida diventi l’acqua man mano che mi allontano dalla riva e vado più in profondità. Come in tutti i mari in cui mi immergo, anche qui resto sott’acqua fino all’attimo prima della fine dell’ossigeno, con il corpo completamente vuoto, la sensazione del sangue che mi va alla testa. E con gli occhi aperti vedo da sotto la superficie il profilo sfocato e tremolante della Chiesa di San Pedro affacciata sugli scogli. Scappiamo ridendo come sempre dalla marea che non ne vuole sapere niente di tutti noi stesi al sole e che nel giro di un’ora rende la spiaggia solo un ricordo e fa diventare il mare profondo tanto da potersi tuffare dai muretti.

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Camminiamo verso una collinetta verde e ci stendiamo al sole e al vento mentre un deltaplano ci vola a pochi metri dalla testa e quando passa davanti al sole, oscura per un attimo il prato e seguiamo l’ombra delle gambe che muove per virare.
E per un attimo, sono anche io cielo, sono vento e sono oceano.

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Bilbao, su ogni ritorno, ci accoglie sempre meglio del giorno prima. L’ultimo giorno c’è anche il sole e le vecchie in bus si meravigliano dei 33 gradi che ci sono. Faccio la fila con delle bambine per prendermi un gelato al dulce de leche, lo mangio passeggiando sotto al Guggenheim, ci fermiamo in un parco, troviamo il bar più bello di Bilbao, la gente sembra tranquilla e felice di essere qui e adesso e mi sento parte di questo flusso, della gente che ride, dell’acqua che corre e si mischia all’oceano.

(Francia – Paesi Baschi) Bordeaux/Arcachon

“C’è qualcosa in particolare che vuoi vedere a Bordeaux?” “No, voglio solo passeggiare”.
È sempre meno il tempo che dedico a pagine tipo 10 cose da fare a, preferisco aprire google image, digitare il nome della città e guardare le sue foto, le prime due pagine al massimo. Immaginarmi in quelle strade a camminare è il mio modo di progettare un viaggio: se mi ci vedo bene, entrare in sintonia con la città che mi ospita è semplice. E Bordeaux si lascia passeggiare. Continua a leggere