Trentasei ore

Il sangue degli sconosciuti e le voci dei loro parenti, questa città stanca (doppio livello di comprensione) il tuo nome gridato su una banchina vuota di marmo, non sapere dove sei, sapere che ci sei, la gente che mi guarda ma non mi vede, i campi che bruciano, la spazzatura sulle strade, le stazioni deturpate, le persone deturpate, il Vesuvio, il monte Somma, la provincia e poi un’altra, la voce dei miei nonni su un nastro di 40 anni fa, mia nonna che canta, mio nonno che le suggerisce le parole, capire profondamente Krapp nella cucina dei miei, “restate qui, L. dorme sul divano vuoi due nella stanzetta”, mia madre che ci saluta alla finestra e ride del nostro ridere, la provincia e poi un’altra, la provincia e poi la città, un inferno abitato da angeli e non il contrario, anzi no, un inferno abitato da indifferenti, il pomeriggio, la luce grigia, la pioggia, il primo plaid dell’anno, dieci minuti di occhi chiusi, dieci minuti di quasi sonno, “un minuto e mezzo e mi alzo”, il lavoro per il lunedì, gli occhiali sui capelli, la lavatrice e poi la pioggia forte, i panni in casa ché piove ancora e pioverà pure domani, i muffin, “mi tagli il cioccolato?”, il profumo di cacao amaro in 40 metri quadri, il film visto e rivisto da rivedere sul divano, il plaid rosso sulle gambe, le gambe sulle gambe, piove forte, piove ancora, la sveglia, “un minuto e mezzo mi alzo”, mezz’ora dopo, il caffè, i muffin della sera, le dita sporche di cioccolato, il latte freddo, ci vediamo in giro verso le 6.